I luoghi della narratrice
La preistoria della narratrice risale agli anni dell’immediato dopoguerra, sviluppandosi in parallelo con i primi lavori della studiosa. Nel 1947 La leggenda di domani, di ambientazione salentina, concorre al Premio Mondadori. Il romanzo, rimasto nel cassetto, offre però materiali ad alcuni episodi dell’Ora di tutti, l’opera prima edita da Feltrinelli nel 1962. La scrittura vive una vita sommersa, un tempo di decantazione: anche Il treno della pazienza, inviato senza fortuna al premio «Libera Stampa» di Lugano nel ’49, sarà ripreso e rimaneggiato a distanza nell’affresco di una Lombardia postbellica, contadina e operaia, in Cantare nel buio, del 1991. Funzionano così i percorsi creativi di Maria Corti: come un sistema di innervazioni che crea collegamenti genetici tra libro e libro; accade anche per Il ballo dei sapienti (1966), sulla contestazione giovanile presessantottesca, rifuso in parte nel suo gemello, Le pietre verbali (2001), dedicato al Sessantotto pavese. Tra i primi tentativi e l’esordio pubblico del 1962 passa un quindicennio. Forse avrà contato qualcosa l’insoddisfazione per la forma romanzo, ancora compromessa con la neorealistica poetica del documento. A questa impasse, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, rispondeva l’azione di sabotaggio della neoavanguardia. Ne tiene conto anche la Corti, che privilegia due strategie. Innanzitutto la costruzione ‘a polittico’, fatta di diverse voci recitanti, come nel congegno diversamente plurivoco e pluriprospettico dell’Ora di tutti e del Canto delle sirene (1989). Con le parole dell’autrice: «Un aspetto fondamentale comune a tutti i miei romanzi è la presenza di un coro di personaggi che si fa attore assoluto sul palcoscenico della Storia» (Autointervista, «Annali di italianistica», 7, 1989). Seconda via di fuga dal ‘romanzo-romanzo’, la fisionomia ibrida del taccuino-saggio-memoir narrativizzato, in Voci del Nord-Est (1984), Ombre dal Fondo, (1997), Catasto magico (1999). La dispersione e varietà delle voci è bilanciata dall’accentramento dello spazio, tra Lombardia e Salento, e soprattutto del tempo narrato, tra immediato dopoguerra (Cantare nel buio) e Sessantotto (il dittico Ballo dei sapienti e Pietre verbali); non esce del tutto dallo schema neppure l’Ora di tutti, se, con Giacomo Debenedetti, leggiamo l’invasione turca come travestimento allegorico dell’occupazione tedesca. Più che un recupero nostalgico, sarà il tentativo di sorprendere nelle epoche di svolta delle ‘esplosioni’ della cultura o dei ‘campi di tensioni’ (direbbe la Corti semiologa). Ma la stessa scelta, difficile negarlo, suggerisce anche un giudizio sul presente.